martedì 30 luglio 2024

Il mangiare piano

Scrivevo in Lombardia ma erano veramente altri tempi, il web era lontano anni luce. Quando alla fine del 1973 sono tornato a sud tutto è stato diverso: una riscoperta che per qualche anno ha coperto il senso del tempo. E’ dalla metà degli anni 2000 che quel che sono e sono stato ha ripreso possesso della scena e non è stato facile digerire le mie esperienze in luoghi e stagioni tanto diverse. Dove andavo non lo sapevo neanche io, ma dicevo il contrario! 
Adesso che la lontananza ha messo a fuoco anche momenti e persone che immaginavo sparite, adesso la vastità del tutto a volte mi sgomenta: i Blog hanno anch’essi la loro brava responsabilità probabilmente perchè non sono mai riuscito a prenderli con leggerezza e sono troppo, troppo serio. L’inizio è stato un giorno in ospedale quando avevo 8 anni, trauma cranico e rischio di vita: lo ricordo talmente bene che ne ho scritto. Da lì in poi un percorso ad ostacoli chiamato via via in vari modi, ideologia, università, sesso, poesia. sogni. E scrittura. C’è sempre stata, l’ho sempre usata, è il mio alfabeto morse. Lontano ha un buon senso se hai vissuto il vicino, lontano, sembra strano, avvicina. Ma non sempre aiuta a stare meglio. Sapessi come è difficile da spiegare. L’amore e la bellezza sfiorite rimangono soltanto in una prospettiva seria e compiuta, la scrittura, la musica e l’arte in genere restano come un sorriso o una carezza: mi domando se chi legge riesce ad avvertirli. Le moviole servono a riassaporare, ricapire…ri maledirsi a volte. Lo dico come chi sa cos’è il mangiare piano.

giovedì 25 luglio 2024

LETTERA NEL VENTO

Che ne sai dell’alito caldo che scende talvolta sulla mia terra? Io l’ho solo presagito ieri sul far della sera, un breve momento di attesa poi è iniziato. Ma tu non puoi sapere che lo scirocco è un confine nella nostra vita, un paletto da cui ripartire alla ricerca di una nuova frescura. Eri bellissima davanti al mare che ci vide diversi. Immobile il tuo corpo, l’abito unica parte viva su di te. Il vento caldo come sciroppo denso ci avvolgeva ed io sognai un’estate lontanissima e sospesa come questa quando ogni cosa doveva cominciare. Ma tu non sai, hai voluto dimenticare, io non potevo fissato dal vento in un sogno inutile ma necessario.Tu non hai bisogno di sapere che il tuo violino suonò per quest’ uomo un accordo lunghissimo che è rimasto su di me che sono una viola, compongo solo una biscroma al giorno. Troppo poco per difendersi dallo scirocco che avvolse le nostre vite. Tu sei altrove adesso, se una finestra dondola o sbatte la chiudi per non ricordare quella costa, il mare e il nostro silenzio.

sabato 20 luglio 2024

TRAMONTI A OCCIDENTE

Tramonti ad occidente” è la mia vita. I giorni infiniti, il gelsomino di sera e il profumo del mare sotto l’acropoli. E’ l’eternità di quando ero un ragazzino e il sogno che ancora non si è spento. Tramonti ad occidente è l’unica cosa che ho scritto senza inquietudine, è il mio rifugio dell’anima. Il testo fu scritto molto tempo fa e fa riferimento ad un'emozione e un ricordo di quasi 40 anni addietro. L'ultima volta che vidi Selinunte così come è qui descritta. Tutto il post, ogni suo rigo, virgole comprese è dedicato ai miei genitori. A mio padre severissimo e austero ma capace di tenerezze improvvise: fu lui quella sera a invitarci a correre a piedi nudi sulle stoppie secche attorno ai templi. Ci disse - devi imparare a conoscere la tua terra dalla sua terra- A mia madre che nella foto appare quasi trasognata col vento nei capelli: capii allora quanto l'amasse mio padre mentre la guardava camminare mentre noi le sfuggivamo di mano. Loro dentro di me ci sono ancora.

Tornare là dove tutto era iniziato significava rincorrere le voci, sorridere con gli occhi socchiusi all’incantamento che ci aveva estraniato dal mondo e guardare nel fitto del nostro iniziale respiro. Selinunte era un’ampia falce di sabbia dorata che terminava con un basso promontorio di terra e roccia. Selinunte erano le mie estati di bambino, una magia che non si sarebbe ripetuta mai più. Di questo luogo conoscevo ogni pietra, ogni goccia del mare, persino i ciuffi di rosmarino e cardo selvatico mi erano amici. I miei compagni di scuola in Lombardia, alla fine dell’anno, si sentivano dei privilegiati perché si trasferivano sulla riviera romagnola o sulla costa ligure. Li compativo, io ad ogni estate facevo il bagno con gli antichi Dei di questa terra; mi lasciavo accarezzare dall’acqua turchese mentre i piedi giocavano con la sabbia bionda e granulosa. In questo mare avevo imparato a nuotare e, quando m’immergevo, scoprivo poi le colonne rosee dell’acropoli attraverso il filtro acqueo sui miei occhi un attimo prima di riemergere. In questi posti io, fin da bambino, sono stato spesso scambiato per uno di quei turisti del nord, gli unici snob che per decenni sono discesi sino all’anticamera dell’Africa soltanto per visitare l’area archeologica. L’affetto per i luoghi della mia infanzia addolciva la mia naturale misantropia. Sapevo con assoluta certezza che era l’ultima volta che avrei potuto incontrarli, l’ultima occasione per sentirli nell’intimo delle mie fibre così come essi erano sempre stati per me. A volte è una questione d’odori nell’aria e capisci, in un momento, che il tuo sentimento per un luogo sta per cambiare in modo ineluttabile. Puoi disperarti o far finta di niente, ma io, seduto ad un tavolo del bar Lido Azzurro, di lì ad una settimana sarei stato un altro in un altro luogo e in un tempo diverso. Questa certezza mi dava un disagio profondo, non avevo alcun potere, alcuna voglia d’impedire la metamorfosi. Perché avrei dovuto far sopravvivere un simulacro di Selinunte, dei miei quattordici anni, del mare sotto l’acropoli? Per inorridire tra uno o due decenni dinanzi alla maschera grottesca che sarebbero diventati? Esiste un accanimento terapeutico anche per le emozioni, i sentimenti, i ricordi: è questione di scelte, io avevo deciso che questo luogo sarebbe scomparso con me e sarebbe stato per sempre solo mio. Molti anni prima, in un tardo pomeriggio uguale a questo, avresti visto quattro persone camminare lentamente lungo la stradetta che attraversava la zona archeologica. L’ordine del drappello era sempre lo stesso: mio padre in testa, davanti a tutti di almeno una decina di metri. Poi mia madre, guardinga e speranzosa di un ritmo di marcia meno baldanzoso. Infine io e mia sorella, occupati a sciamare ovunque in ordine sparso. “Passeggiate in famiglia” erano chiamate ed erano ogni volta un’avventura diversa attraverso le rovine dei templi dorici della collina orientale, le pietre ammucchiate come pugni di sale bianco sopra un poggio che guardava il mare. Cominciai ad affrettare il passo, il sole aveva iniziato la sua discesa…mi parve di sentire la voce di mia madre… Mi fermai, come facevo allora, per raccogliere una lumaca attaccata ad uno sterpo rinsecchito. Perdevo tempo dunque e restavo indietro, allora come adesso. Immobile davanti al tempio adesso il silenzio era assoluto, con la mano cercai la fotocamera dentro la tasca del giubbotto. Sulla pelle scorreva un brivido sottile, un’emozione vera: come da bambino questo silenzio era il segno premonitore del miracolo che mi attendeva fra le rocce. Le colonne si andavano colorando di un rosa più intenso rubato al sole che, sempre più grande, era ormai quasi sopra il Baglio Bonsignore. Dovevo muovermi più in fretta. D’ora in poi il tempo avrebbe mutato nell’intimo la sua essenza. I minuti, i secondi potevano dilatarsi o coagulare gli uni sugli altri senza uno schema logico prevedibile. Quarantanni prima, per mio padre, era molto più semplice: una sera dopo l’altra l’estate lunghissima gli regalava opportunità continue di vivere senza fretta. Dopo la sosta al tempio E, ancora pochi passi e tutta la famiglia giungeva sullo spiazzo delle rovine del tempio G: un’enorme quantità di blocchi di pietra grigia, un groviglio inestricabile e confuso di rovi, terra e resti architettonici popolati da gechi e insetti. Dell’immensa struttura restava il perimetro d’alti gradini ed un’unica alta colonna interna, levata come un dito ammonitore e misterioso. Era chiamata da sempre “lu fusu di la vecchia”. Le voci mi raggiungevano nuovamente… e, mentre salivo per un sentiero fra le pietre, mi raccontavano per l’ennesima volta di com’erano le cose prima e non fossero più. Il silenzio era sempre più assordante. Percorrevo, da solo, la vecchia strada ed ero stupito di come niente fosse cambiato: le gambe sembravano muoversi in modo autonomo. Mi fermai. Attesi un momento ma le voci erano scomparse, lontano da molto tempo, questo pellegrinaggio iniziato da solo, in solitudine doveva finire. Avanti per qualche metro: ero proprio sotto lufusu e le ombre diventavano sempre più lunghe. Altri passi veloci… finalmente “la seggia” era davanti a me! Per uno strano e insondabile caso questo pezzo d’architrave, crollando dall’empireo della sua alta funzione, rotolando e spezzandosi assieme alle migliaia di altri blocchi di pietra, era rimasta in cima al mucchio. Superba e insensibile agli insulti del tempo, capovolgendosi, si era sistemata come un divano di foggia avveniristica sopra tutti i resti della gloria ellenica. Arrampicandomi poggiai infine le spalle sullo schienale di pietra: era ancora dolcemente tiepido per il calore accumulato durante il giorno. 
Ma, ora, non c’era più tempo per riflettere: lo spettacolo stava per iniziare. Il cielo terso, immacolato, da azzurro era diventato blu intenso.Io, seduto nella mia poltrona, vidi comparire la prima stella: Venere mandò un lampo di luce e cominciò a brillare come un gioiello. Il sole, largo e arancione, s’era portato sulla verticale dell’acropoli, il suo disco, diventava nella parte inferiore, di un rosso carminio, come fosse venato di sangue. Non c’era più luce, piuttosto un riflesso interno e luminoso che aveva vita propria. L’astro scese tra le colonne del piccolo tempio dell’acropoli che erano diventate tanti minuscoli aghi neri, rilevati sullo sfondo del cielo e del mare. Adesso avevano entrambi un’impossibile tinta color indaco. Mi girava la testa. Non vedevo nulla, ma sentivo tutto con precisione assoluta. Poi, all’improvviso, questo stillicidio cromatico e temporale divenne un urlo viola. Il disco solare emise un respiro tagliente di luce rossa e il tempo si fermò. Tutto immobile il cielo, la terra su cui posavo i piedi, il sole pronto ad essere inghiottito dal mare, le pietre dei templi e l’aria con il suo sottile aroma di rosmarino. Io ero lì, come il bambino di vent’anni prima e l’uomo di adesso. I miei ricordi d’infanzia legati ai pensieri da vecchio che rigiravo nella testa.Ogni cosa al suo posto, sospesa, perfetta nel suo significato più intimo, senza alcuna necessità di collocazione temporale. Probabilmente era questa l’eternità, quella parte di metafisico che ognuno di noi possiede e che spesso chiamiamo anima; il desiderio struggente che divora la nostra vita come un’amante irraggiungibile. Mi invase un benessere calmo, profondo ed io lo assaporai fino in fondo, le braccia allargate e la testa reclinata all’indietro: poter riflettere e finalmente capire come si era chiuso il cerchio della mia vita, cosa avevo fatto e cosa ero diventato. Furono le cicale a segnare la fine dell’incantesimo, a farmi scendere dal divano di pietra. Attorno al tempio camminavano tranquillamente mio padre, mia madre, mia sorella; la famiglia di nuovo unita e fu molto bello tornare ragazzino, con loro.Quella notte, seduti sul grande capitello rovesciato, abbiamo ascoltato con attenzione le molte storie, le piccole grandi avventure narrate da mio padre. Il firmamento era un enorme puntaspilli di velluto nero pieno di stelle e galassie. Fu eccitante osservare una luce mobile che attraversava lo spazio sopra di noi: un aeroplano? Forse un satellite? Più probabilmente lo sguardo divertito degli antichi Dei che osservavano il nostro formicolare quaggiù sulla terra. Papà, sono certo che anche tu ricordi le notti in cui stavamo tutti con il viso in aria a farci accarezzare dal vento tiepido che veniva dall’Africa. Esse non sono trascorse per sempre, sono soltanto andate altrove a raccontare di noi quattro e dei nostri stupori.


lunedì 15 luglio 2024

REVERIE


Leggera, leggerissima. Non avrei mai immaginato che la trasparenza scivolata tra noi diventasse nel tempo la nostra fine. C’era il tuo profumo ma il pianoforte ne aveva uno più forte, il legno e i suoi tasti aspettavano le tue mani e la musica. Quante volte si ripeté il miracolo? Quanti giorni consumammo assieme senza sapere nulla del futuro? Eri leggera, leggerissima, quando ti ascoltavo al pianoforte non capivo, non potevo sapere che il suono ci avrebbe portato così lontano. L’ultima volta fu un Debussy dalle note infinite, suonasti gli accordi finali con gli occhi chiusi, la musica si spense senza un sospiro, cadde ai miei piedi e si dileguò per le stanze della nostra vita. Leggera, leggerissima come un battito di ciglia.

Palermo 20 dicembre 1976

mercoledì 10 luglio 2024

LENTIGGINI

Ho scritto per lunghi anni sino allo sfinimento, spinto da una febbre in cui il compiacimento era solo una piccola parte e il bisogno di verità e assoluto la segreta richiesta. Ne sono uscite cose come quelle che leggete: sono la mia verità? Sì lo sono e possono essere tenute in mano liberamente. Non rappresentano dogmi intoccabili, esprimono solo il mio desiderio di restare, il bisogno di non morire all’oblio delle emozioni e dei sentimenti che mi hanno sorretto nella vita. Sono la mia testimonianza, curata, levigata…amata. Io veramente non ho altro e non so scrivere di altro. Non so come ci stia riuscendo ma il tempo, frantumato in mille cocci, si sta assommando qui. Questa casa sull’acqua raccoglie molte delle mie stagioni e il passato rientra a cavallo del presente, il futuro che verrà si nasconde con malizia tra le pieghe di una metafisica provvisoria. Non ho alcun progetto.


Non mi liberai ieri
dello scandalo d’esistere.
Non lo farò nemmeno oggi
preferendo la leggerezza di
pensare
ai giorni in cui pesavo
poco
e il viso avevo di lentiggini
pieno
come di papaveri in estate un
campo di grano.
Quel che fui mi trasfigura
ogni giorno,
quel che sono non riesce nemmeno
ad ingannarmi.

In foto il blogger a poco più di tre anni in casa del nonno

venerdì 5 luglio 2024

Esistere, una lettera senza risposta


Ho chiuso le mie stanze da molto tempo. Non è stata una scelta ponderata e nemmeno voluta, si è trattato di un movimento fisiologico del tempo cui l'animo si è conformato pian piano. Negli anni gli oggetti del mio affetto, i simulacri dei miei desideri e le mie piccole gioie esistenziali si sono allontanate da questo luogo fino a svanire del tutto così le stanze sono diventate solo il riflesso, l'unico rimasto, della mia vita. Esistiamo davvero? Solo in un caso specifico, solo l'uno per l'altro e soltanto in questo rispecchiarci dentro le nostre solitudini. Due vite e due ricordi, morti noi non resterà assolutamente nulla poiché solo la memoria ci tiene in vita…. Assieme eravamo dentro la vita reale, terminata quella stagione è rimasta solo questa dimensione metafisica, un vasto territorio indefinito, un sogno, crudele a volte, ma imprescindibile. Qui, dentro la memoria di noi, è tutto al suo posto, in ordine; sfioro con lo sguardo l'insieme e, quando riesco a trattenere la commozione, ogni cosa mi appare bella com'è nella sua essenza. I visi suoni, i colori e persino i profumi non sono andati dispersi, vivono in quella perfetta armonia dalla quale, senza un perché preciso, nacquero. Anche se la distanza diventa ogni giorno più grande, le stanze sono ancora lì, intatte; niente e nessuno può scalfirle, nessun equivoco può inquinarle, io non lo credevo possibile quarant'anni fa ma è accaduto. Quando entro in quella dimensione, lentamente con una calma golosa accendo le luci e mi soffermo sulle forme e le ombre cui la luce dà vita, poi pian piano arrivano i suoni e le eco…non esistono parole per descrivere tale dimensione che non è solo temporale ma anche affettiva, sentimentale, trascendente ogni altra cosa. Fuori da qui gira un altro mondo che del primo nulla sa o intende: io non ho più interlocutori da quel lontano pomeriggio in cui ci lasciammo, in questo estremo rifugio di esistenza si aggira sempre più stanco l'uomo che hai amato.